
Mark Twain e la sua America dipinta di bianco
Avevo guidato per sette ore. Come saprà bene chi ha viaggiato nel Midwest americano, erano state sette ore di code, di automobili oversize, di motel usurati ai lati della strada. Di piccole villette con verande sgangherate, di bandiere a stelle e strisce. Di fast food con insegne alte quanto la stella polare, e altrettanto necessarie alla navigazione.
Viaggiare lungo il Mississippi comporta, anche per il viaggiatore dalle leve ben oliate, uno sforzo intellettuale notevole. Poche entità geografiche, in effetti, sono state investite di simili valenze simboliche: lassù insieme al Grande Fiume forse ci sono il Monte degli Ulivi, le Montagne Rocciose, il Tamigi, l’Ararat, l’Everest. Luoghi che, con lo stratificarsi delle mappe e delle storie, sono diventati più grandi delle loro dimensioni fisiche. Incontrare il fiume significa anche misurare la nostra piccolezza di fronte a un mito che continua a levigare, mescolare, depositare le storie che si sbobinano lungo i suoi fianchi.

Scendevo lungo la curva sinuosa dell’America alla ricerca dei suoi miti letterari, e non avrei potuto dare il mio saluto al Mississippi senza avere accanto lo spirito che più di altri ha contribuito ad arricchirne l’immaginario, quel Mark Twain che visse proprio sulle sue rive prima di salire sul battello a vapore per rincorrere il sogno dell’Ovest.
Sono sempre stata affascinata dal rapporto tra le parole e i luoghi. Dovunque io viaggi, ho sempre nello zaino almeno un libro che possa restituirmi un pezzo di quella geografia che calpesto ogni giorno: così, ho viaggiato sulla Transiberiana con Pasternak, sulla via della seta con Thubron, in Albania insieme a Ismail Kadaré, in Finlandia con Tove Jansson.
Dice E.L. Doctorow che la letteratura dà significato a un luogo, collegando il visibile all’invisibile e trovando così “la vita nascosta in quella direttamente osservabile”.
Questo rapporto non è mai stato così stretto quanto quello che lega il paesaggio americano alla sua scrittura, forse perché la nazione stessa ha fondato la sua identità su nuovi canoni letterari che hanno avvolto i territori via via conquistati.

La cittadina di Hannibal, in Missouri, oggi basa quasi tutta la sua economia sul suo cittadino più illustre. Ammetto che, avendo girato gli Stati Uniti in lungo e in largo e avendo quindi conosciuto le inimitabili cime di kitsch a cui arrivano gli americani, ero pronta al peggio. Invece, Hannibal non è molto diversa dalle innumerevoli piccole città americane: sistema stradale a grid attorno alla Main Street dove sono allineate le attività a conduzione famigliare, qualche piccolo b&b, fuori dal centro gli hotel di catena, i grossi discount e i distributori di benzina.
Ma Hannibal è anche, come non mancano di ricordarvi più o meno ogni tre secondi, “America’s hometown”: il luogo da cui ogni americano parte, e il luogo che è diventato nostro quando da bambini abbiamo letto le avventure di Tom Sawyer e Huck Finn.
Il quartiere storico sembra uscito da una cartolina d’epoca: la casa d’infanzia di Mark Twain su Hill Street, con il contiguo museo, si riconosce dalla staccionata bianca che la separa dalla strada ciottolata. C’è persino un plafone con cui si può fingere di dipingere di bianco lo steccato, come gli amici del furbo Tom Sawyer che pagano per il privilegio di fare il lavoro che sarebbe toccato a lui (con la differenza che loro non si facevano i selfie).
L’ufficio del turismo ha fatto un lavoro di tutto rispetto: quando l’industria del legname ha lasciato la città a inizio Novecento, si è capito che la fonte principale dell’economia di Hannibal sarebbe stata proprio la sua presenza nell’immaginario dell’infanzia americana come il palcoscenico in cui si sono mossi Tom Sawyer e Huck Finn. E i personaggi sono presenti davvero ovunque: c’è la già menzionata casa di Twain, quella di Becky Thatcher, quella di Huckelberry Finn, il negozio di antiquariato della zia Polly, la caverna di Mark Twain, la birreria Mark Twain, il battello sul fiume (indovinate come si chiama? Mark Twain.), il parco acquatico Huck Finn, la gelateria Becky, il centro commerciale Huck Finn, insomma, ci siamo capiti.
La memoria storica della città, però, è a dir poco selettiva. Hannibal ha infatti per decenni lottato tra la rievocazione storica di un’infanzia idilliaca e il suo drammatico passato di città schiavista (gli schiavi facevano un quarto della popolazione di Hannibal). Se mangiate al Becky Thatcher Diner, pensateci: proprio di fronte a voi c’era il mercato degli schiavi, all’incrocio tra la Center e la Third. Proprio di fronte a voi i bambini strillavano mentre venivano separati dalle loro madri e venduti o concessi in affitto alle famiglie della industriosa città di fiume, compresa quella del nostro scrittore.
Una volta adulto, Twain si è sempre pronunciato contro la barbarie della schiavitù, in un Paese ipocrita che voleva promuoversi come patria delle libertà. Così scrisse in occasione della laurea ah honorem a Yale:
La mia vocazione di scrittore, con questa leggerezza e frivolezza, ha un obiettivo serio: deridere i ciarlatani, rivelare le falsità, ridere delle superstizioni stupide finché non spariscono. E chi si impegna istintivamente in questo tipo di guerra è un naturale nemico delle famiglie reali, dei nobili, dei privilegiati e di tutti gli altri truffatori, e naturale amico invece dei diritti umani e della libertà.

Una chiarezza di visione che la città non ha condiviso: fino a pochi anni fa, ad Hannibal la macchia dello schiavismo era qualcosa da dimenticare. Solo recentemente è stato aggiunto un tappeto nella cucina della casa di Twain, dove si spiega che lì, proprio accanto al fuoco, dormiva la giovane schiava della famiglia. Ma è indicativo che quest’aggiunta, decisa dopo annose discussioni tra i membri del consiglio, sia costata al museo il suo principale benefattore privato.
Solo quattro anni fa è stato aperto il primo museo che traccia la storia della schiavitù e degli afroamericani ad Hannibal. “Jim’s Journey: The Huck Finn Freedom Center” è stato costruito nella casa di Daniel Quarles, uno schiavo affabulatore che aveva affascinato il piccolo Sam Clemens tanto da ispirargli, molto più tardi, la figura di Jim in Le avventure di Huckleberry Finn. Dovette passare un anno prima che il museo fosse inserito nelle mappe del distretto storico di Hannibal, e oggi figura tra le attività più apprezzate in città.
La triste impressione è che solo oggi, nella casa natia di tutta l’America, si stia cercando di fare i conti con un passato doloroso. Per far sì che a essere ridipinta di bianco sia solo la staccionata di Sawyer, e non la storia di un’intera nazione.