
Ricordando Martin Luther King a Memphis, 50 anni dopo
Memphis mi ha accolta per la prima volta in una fredda serata ottobrina di sette anni fa. Viaggiavo per gli Stati Uniti con due regole: spostarmi soltanto con mezzi pubblici (treni e autobus), e utilizzare l’ospitalità dei locali tramite Couchsurfing. Pensavo che in questo modo avrei potuto vivere l’esperienza più autentica possibile, lontana dai cliché del turismo internazionale.
Arrivavo dalla Louisiana a bordo del treno chiamato City of New Orleans, che si arrampica su per il Mississippi fino a Chicago. In una giornata si erano srotolate diverse stazioni dai nomi dolci come melassa nella parlata lenta, tipica del sud: Brookhaven, Hazlehurst, Jackson, Yazoo, Greenwood e, superato da qualche chilometro il confine col Tennessee, finalmente Memphis.
Di quell’arrivo ricordo solo il buio e il silenzio quasi spettrale: normale, per una stazione ferroviaria che vede passare solo un paio di treni al giorno.

Memphis era il mio primo assaggio di “profondo Sud”, e vi arrivavo carica di aspettative e suggestioni grazie ai film, alla musica e ai libri di cui mi ero nutrita prima di partire.
Memphis, una città in ginocchio
Ero ospitata in una bella villetta in mattoni in un quartiere residenziale. Ogni mattina mi alzavo presto, facevo colazione con caffè bollente e cinnabon buns fatti in casa, e mi incamminavo per raggiungere downtown. Ci voleva un’oretta, ma contando i quattro sparuti bus che circolavano in città, era comunque l’opzione migliore.
Memphis era sempre grigia, e non parlo solo del tempo atmosferico. Avevo nella testa tutti i libri che avevo letto su quella terra, sulla lotta per i diritti civili, sui discorsi di Martin Luther King. Ma ciò che vedevo coi miei occhi attraversando i suoi ampi isolati raccontava una storia diversa. La storia di una crisi implacabile, che aveva scaraventato a terra i più indifesi.
La crisi del 2008 aveva lasciato a Memphis una scia di piccole attività familiari fallite, negozi sfitti, case pignorate, disoccupazione a livelli record. Era una città letteralmente svuotata: le vetrine erano sbarrate, quando ancora intere. Nessuno intorno. Soltanto le mense dei poveri avevano davanti alle porte una fila di persone. Tutte afroamericane.
È lo stesso ritratto offerto dal regista Alan Spearman nei suoi cortometraggi sulla gioventù di Memphis, una geografia della povertà dai confini ben delineati.
As I Am from Alan Spearman on Vimeo.
Bastò questo per convincermi che la paccottiglia in vendita su Beale Street, la via dove si dice nacque il blues, non mi stava raccontando molto sul luogo in cui mi trovavo. Era necessario andare alle origini. Era necessario andare al Civil Rights Museum presso il Lorraine Hotel, dove proprio 50 anni fa uccisero Martin Luther King Jr.
Il Civil Rights Museum presso il Lorraine Hotel: dove Martin Luther King vive
Il Civil Rights Museum di Memphis sorge nell’edificio che era una volta il Lorraine Hotel, uno dei pochi alberghi in città che accettavano clienti afroamericani.
Martin Luther King vi soggiornava quando passava per Memphis, e vi prese una stanza anche quando venne chiamato dal reverendo James Lawson per parlare a una folla di 15.000 persone. Qualche giorno prima, a seguito della morte sul lavoro di due colleghi, migliaia di lavoratori della nettezza urbana avevano deciso di scioperare per chiedere condizioni di lavoro più sicure e un aumento salariale.
Anche allora, la questione dei diritti civili era intessuta con quella della depressione economica: un legame che ancora oggi fatica ad allentarsi. Memphis è tuttora considerata la regione metropolitana più povera degli Stati Uniti.

Il museo vi porta alla scoperta della cultura afroamericana negli Stati Uniti, dal “Middle Passage” (come veniva chiamato il terribile viaggio attraverso l’oceano atlantico) fino ai giorni nostri, passando per le storie di schiavitù e ribellione, la guerra civile, le guerre mondiali e naturalmente il movimento per i diritti civili e la lenta desegregazione.
Ho trovato particolarmente interessanti le teche dedicate all’influenza della cultura africana su quella americana. Non sapevo, per esempio, che “gumbo” (famoso piatto creolo, da provare in Louisiana) significasse “ocra” in alcune lingue dell’Africa occidentale, o che le tradizioni musicali di queste stesse aree presentassero alcuni tratti del blues americano.

Com’è tipico dei musei americani di nuova generazione, ogni esposizione è interattiva e visivamente accattivante. Il clou si raggiunge verso la fine del percorso obbligato, quando si viene portati davanti alla stanza dove alloggiava King. Vi sembrerà che il tempo si sia fermato e che il reverendo si sia assentato solo per un attimo. Calerà un improvviso silenzio gravido di tensione.
Ancora oggi, anni dopo la prima visita, la stessa domanda mi sorge ancora più urgente: quale futuro per i figli e i nipoti di quel movimento, oggi? Quale futuro per Memphis, in un momento storico in cui i gruppi per la supremazia bianca stanno ottenendo piattaforme sempre più ampie?
Troppo difficile dirlo, e questo non sarebbe nemmeno lo spazio adatto. Mi auguro però che se doveste capitare nella zona sarete in grado di adottare uno sguardo consapevole verso ciò che visitate: perché Memphis è certo Beale Street, è certo Graceland, Elvis e tutto il resto. È però anche uno dei più duri campi di battaglia di oggi, dove dialogano e si scontrano le diverse identità americane.
Informazioni pratiche:
Civil Rights Museum – 450 Mulberry Street, Memphis (TN) – tel. (901)521-9699 – aperto tutti i giorni dalle 9 alle 17, chiuso il martedì. Ingresso adulti 16$, giovani dai 5 ai 17 anni 13$.